Non se ne parla solo nei romanzi e nei film drammatici: il disconoscimento della paternità è un vero e proprio istituto giuridico, attualmente regolato dagli artt. 243bis e ss. c.c.
Ma qual è il suo scopo? L’azione di disconoscimento della paternità, sostanzialmente, è diretta a far accertare (e quindi dichiarare) dal giudice che il presunto figlio è stato concepito da persona diversa dal marito della madre, eliminando così lo status di figlio attribuito dalla presunzione prevista all’art. 231 c.c.
In attuazione del principio contenuto nell’art. 1, comma 2, lettera d) della L. n. 219/2012, con il d.lgs. n. 154/2013 è stata ridefinita la materia del disconoscimento di paternità, fino a quel momento regolamentata dall’art. 235 c.c. (ora abrogato).
In particolare, tale norma ammetteva l’esercizio dell’azione per il disconoscimento di paternità del figlio concepito in costanza di matrimonio solo in 3 casi tassativi:
1) se i coniugi non avessero coabitato nel periodo compreso tra il trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita;
2) se durante il periodo di cui al precedente punto 1) il marito fosse stato affetto da impotenza, anche se soltanto di generare;
3) se, sempre nel periodo di cui al precedente punto 1), la moglie avesse commesso adulterio o avesse tenuto celata al marito la propria gravidanza e la nascita del figlio.
Solo al ricorrere di una di queste tre ipotesi il marito era ammesso a dimostrare che il figlio possedeva caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre o qualunque altro elemento tale da escludere la paternità.
Oggi, invece, l’art. 243bis c.c. dispone che “l’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo. Chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità”.
Dalla lettera della norma, dunque, si evince che i legittimati attivi alla proposizione dell’azione di disconoscimento sono tre, ossia il marito, la madre ovvero il figlio. Non sussiste la titolarità dell’azione in capo a terzi, che pure potrebbero avervi interesse (es. presunto vero padre biologico).
Proposta l’azione, grava quindi sul proponente l’onere probatorio relativo all’insussistenza del rapporto di filiazione tra figlio e presunto padre (es. esame del DNA, dimostrazione dello stato di impotenza di generare del presunto padre ovvero la sua lontananza nel periodo del concepimento). Sul punto, giova precisare che la paternità non può essere esclusa dalla mera dichiarazione della madre.
A differenza di quanto avveniva in passato, dunque, la normativa vigente non identifica più ex lege ed in modo tipico quali sono i casi in cui l’azione possa essere proposta, con conseguente introduzione di nuove ipotesi di disconoscimento. A titolo meramente esemplificativo si richiama la sentenza n. 11644/2012, con cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto che l’azione di disconoscimento della paternità è ammissibile nel caso in cui la fecondazione eterologa sia avvenuta all’insaputa del marito.
Ai fini della proposizione e dell’accoglimento dell’azione di disconoscimento della paternità, dunque, non è più necessario il ricorrere di ipotesi tassativamente identificate dal legislatore, dovendo il proponente solamente dimostrare con qualsiasi mezzo che non sussiste alcun rapporto di filiazione tra figlio e presunto padre.
L’art. 244 c.c., quindi, pone (rispetto al padre e alla madre) termini stringenti per l’esercizio dell’azione di disconoscimento. In particolare:
– la madre può disconoscere il figlio nel termine di sei mesi dalla nascita dello stesso ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento (comma 1);
– il marito può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità entro un anno dal giorno della nascita (se si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio). Se il marito prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza (comma 2). Ancora, se il marito, il giorno della nascita, non si trovava nel luogo in cui il figlio è nato, il termine per l’esercizio dell’azione decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se ne era lontano. Ad ogni modo, se il marito dimostra di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia (comma 3).
Ad ogni modo, nei casi di cui ai commi 1 e 2, l’azione di disconoscimento della paternità non può essere proposta oltre cinque anni dal giorno della nascita.
Rispetto al terzo legittimato attivo, invece, il legislatore precisa che l’azione può essere proposta dal figlio quando abbia raggiunto la maggiore età e senza limiti di tempo. L’azione, in questo caso, è imprescrittibile.
In caso di figlio minore, invece, l’azione può essere promossa da un curatore speciale nominato dal giudice (assunte sommarie informazioni) su istanza:
– del figlio minore che abbia compiuto i quattordici anni di età o
– del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratti di figlio di età inferiore.
L’art. 246 c.c. (“Trasmissibilità dell’azione”) riconosce la legittimazione attiva anche in capo a) agli ascendenti o discendenti del presunto padre o della madre se questi sono morti senza averla promossa e non è decorso il termine per l’esercizio dell’azione fissato dall’art. 244 c.c., e b) il coniuge o i discendenti del figlio morto senza aver esercitato l’azione de qua. Per i primi, il termine decorre dalla morte del presunto padre o della madre, o dalla nascita del figlio se si tratta di figlio postumo o dal raggiungimento della maggiore età da parte di ciascuno dei discendenti. I secondi, invece, sono chiamati a promuovere l’azione di disconoscimento entro un anno, decorrente dalla morte del figlio o dal raggiungimento della maggiore età da parte di ciascuno dei discendenti.
Ad ogni modo, il termine per l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità resta sospeso nelle ipotesi di cui all’art. 245 c.c.
Fatte queste necessarie premesse, però, sorge spontanea una domanda: quali conseguenze produce l’accoglimento dell’azione di disconoscimento della paternità?
Innanzitutto, con l’accoglimento dell’azione di disconoscimento viene meno lo status di figlio e, per l’effetto, il marito viene esonerato dai doveri di assistenza, istruzione ed educazione nei confronti di questi.
In secondo luogo, per effetto dell’accoglimento della domanda di disconoscimento, il figlio perde il cognome del padre e assume quello della madre. Tuttavia, qualora dimostri che il cognome originariamente attribuitogli rappresenta autonomo segno distintivo della sua identità personale, il figlio può ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenerlo (in questo senso, Trib. Monza Sez. IV, 22 gennaio 2020, n. 74).
Ancora, in una recente ed interessante pronuncia, il giudice di legittimità ha dichiarato che in caso di accoglimento della domanda di disconoscimento di paternità, pur venendo accertata ab origine l’inesistenza del rapporto di filiazione, non vengono meno con effetto retroattivo le statuizioni precedentemente assunte in sede di separazione ovvero di divorzio in merito al mantenimento di colui che all’epoca risultava figlio, le quali hanno efficacia di giudicato rebus sic stantibus. Ed invero, gli effetti della decisione sullo status operano automaticamente solo dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento, allorché gli obblighi di mantenimento diventano configgenti con la realtà giuridica definitivamente acclarata e, quindi, risultano privi di giustificazione (Cass. Civ. Sez. I, 11 ottobre 2021, n. 27558). In conclusione, l’azione di disconoscimento della paternità, pur trovando la propria giustificazione in esigenze di ordine pubblico, essendo diretta a garantire la corrispondenza degli stati personali e familiari alla realtà di fatto, è però idonea a produrre effetti e conseguenze di notevole impatto, soprattutto qualora riguardi soggetti minori, ancora in fase di sviluppo della propria identità personale. Conseguentemente, tanto la normativa quanto la giurisprudenza non impongono una prevalenza assoluta del favor veritatis sul favor minoris, ma impongono un bilanciamento fra il diritto all’identità personale legato all’affermazione della verità biologica e l’interesse alla certezza degli status ed alla stabilità dei rapporti familiari, come dimostra tra l’altro la previsione di rigidi termini decadenziali per l’esercizio dell’azione de qua in capo alla madre e al padre presunto, ma non anche in capo al figlio, il quale potrà promuoverla in ogni momento.