L’evento lesivo durante una competizione sportiva: quando ha rilevanza penale?

Una recente pronuncia della giurisprudenza di legittimità (Cassazione penale sez. IV, 28/10/2021, n. 8609) ha analizzato la questione dell’evento lesivo verificatosi in occasione di una manifestazione sportiva.

Nella specie, Tizio ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia che aveva confermato le statuizioni civili a suo carico, in relazione al reato di lesioni colpose in danno di Caio, costituitosi parte civile (agli effetti penali, è intervenuta estinzione del reato per prescrizione).

Il fatto: nel corso di una partita di calcio tra squadre amatoriali, Tizio (attaccante della squadra “G.”) e Caio (difensore della “V.V.”) correvano affiancati lungo la fascia sinistra del campo, rincorrendo la palla lanciata verso la porta della squadra “G.”; Caio era riuscito a frapporsi tra l’attaccante e la linea di fondo, in modo da impedirgli il recupero del pallone.

Nel tentativo di evitare l’uscita della sfera dal campo di gioco, Tizio ha eseguito una “scivolata”, colpendo l’avversario e provocandogli lesioni.

La Corte d’Appello, nel confermare la condanna civile per il danno cagionato alla vittima, ha ritenuto rilevante la circostanza che il fallo di gioco fosse avvenuto quando la palla era ormai irraggiungibile, tanto più che tra essa e la linea di fondo si era interposto il difensore; il tentativo dell’attaccante è stato perciò ritenuto “inutile” e determinante un “rischio gratuito”, anche in considerazione del carattere dilettantistico dell’incontro.

La pronuncia poc’anzi citata svolge alcune interessanti considerazioni in merito alla cd. “teoria del rischio consentito”, in forza del quale coloro che decidono di svolgere talune attività pericolose (come può essere quella sportiva, essendo in astratto ben configurabile la possibilità che si verifichino eventi lesivi a carico dei partecipanti) vedrebbero andare esenti da responsabilità penale quelle condotte che rimangono all’interno dei limiti previsti dall’attività. Detto in altro modo: se si dovesse verificare un evento lesivo riconducibile ad una condotta lecita, cioè rispettosa delle regole vigenti per quella determinata attività pericolosa, l’agente andrebbe esente da pena, in quanto la sua condotta (e il conseguente evento derivatone) sarebbero scriminati in forza di una “causa di giustificazione non codificata”.

Citare le parole della Suprema Corte può sicuramente aiutare maggiormente a comprendere quanto appena affermato: “La posizione della Suprema Corte si e’, insomma, da qualche anno attestata nel senso che la causa di giustificazione, cosiddetta non codificata, dell’esercizio di attività sportiva presuppone che l’azione lesiva non integri infrazione di regola sportiva o comunque, laddove la integri, sia compatibile con la natura della disciplina sportiva praticata ed il contesto agonistico di svolgimento. In assenza di tale causa di giustificazione, il fatto di reato sarà doloso o colposo a seconda che la condotta sia connotata da volontà diretta a ledere l’incolumità dell’avversario o a preventiva accettazione del relativo rischio ovvero sia meramente colposa…”.

Tuttavia, nello sviluppare il proprio ragionamento giuridico, gli Ermellini hanno affermato che la teoria del cd. rischio consentito non è più da considerarsi quella maggiormente adatta per individuare il discrimine tra condotte lecite e illecite nell’ambito di danni fisici procurati nell’esercizio di attività sportive.

Invero, a parere dei Giudici, la predetta teoria si dimostra insufficiente e inidonea a fondare un giudizio concreto sull’agente: essa, infatti, imponendo l’adozione dell’agente modello (l’homo eiusdem condicionis e professionis) costruito secondo criteri soggettivi e non oggettivi, porterebbe a risultati irrealistici, dal momento che l’agente andrebbe incontro a responsabilità per il solo fatto di aver violato una regola cautelare che, in astratto (ovverosia, secondo l’agente modello), poteva (e doveva) essere rispettata. Sufficientemente chiari sono gli Ermellini: “In tale prospettiva, l’agente concreto è chiamato a misurare il suo agire con quello ottimale dell’agente modello, e la divergenza fra i due comportamenti identifica la colpa, quale scostamento dal comportamento diligente, ritenuto esigibile perché (teoricamente) possibile all’agente modello. Ciò implica che la individuazione della pretesa (e quindi del comportamento doveroso) costituisca vera e propria opera creatrice del giudice, come tale foriera di un esercizio di discrezionalità giudiziale confliggente con la necessità di determinatezza della norma incriminatrice e di affermazione di responsabilità solo in presenza di colpevolezza…”.

Ne discende pertanto che la teoria del cd. rischio consentito debba essere abbandonata a favore di un accertamento squisitamente ordinario, coinvolgente cioè l’elemento oggettivo (condotta, evento e relativo nesso causale) e l’elemento soggettivo, quest’ultimo ora nelle forme del dolo ora in quelle della colpa, da individuarsi secondo quanto dettato dall’art. 43 CP.

Le problematiche principali di tale innovativo punto di vista concernono in particolar modo l’aspetto della colpa.

Difatti il dolo (rappresentazione e volontà del fatto) pone pochi problemi circa il suo accertamento: la condotta volontariamente lesiva tenuta dall’agente in ambito sportivo non potrà non avere rilevanza penale poiché la stessa ha lo specifico fine di danneggiare l’integrità fisica altrui (“Il fatto doloso si caratterizza per la coscienza e volontà dell’agente, pur nel contesto sportivo, di procurare lesioni, mediante una condotta violenta commessa al di fuori di una normale azione di gioco (ad es. pugno sferrato a gioco fermo o a palla lontana) o con modalità del tutto avulse dall’ordinario contesto agonistico (ad es., violenta gomitata sferrata deliberatamente all’avversario per proteggere la palla); in sintesi, si ha dolo quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, indipendentemente dalla violazione delle regole dell’attività…”).

Maggiori difficoltà presenta, invece, l’accertamento della colpa. Essa deve consistere innanzitutto in una violazione di una pre-esistente regola cautelare, sia essa scritta (colpa specifica) o non scritta (colpa generica).

Ciò detto, la Corte di Cassazione enuncia la differenza tra regole di gioco e regole cautelari: le prime “strutturano la relativa disciplina e hanno lo scopo di delineare le modalità di esercizio della stessa, onde consentire il regolare svolgimento della competizione e ai soggetti coinvolti (principalmente gli atleti, ma anche altri soggetti quali arbitri, allenatori ecc.) di essere consapevoli delle conseguenze di determinate azioni e comportamenti commessi durante la pratica sportiva, sia in termini di risultato, sia in termini di sanzioni derivanti da azioni scorrette o fallose ma comunque funzionali al perseguimento dell’obiettivo finale (che è normalmente quello di prevalere sportivamente sull’avversario)”.

Le regole sportive, poi, non sempre coincidono con quelle cautelari, per cui una loro violazione non genera ipso facto responsabilità penale colposa.

Corollario è la distinzione all’interno dell’attività sportiva di due differenti aree, “quella sportiva e quella penale, coperte da regole diverse, perché dirette a gestire “rischi” diversi: quelli sportivi, conosciuti e accettati dagli atleti, i quali in tale ambito sono consapevoli della potenziale lesività di determinate azioni di gioco, quale conseguenza possibile della pratica sportiva svolta; quelli penali, quale conseguenza dannosa di azioni che esorbitano dall’ordinario sviluppo del gioco o della pratica sportiva interessata, aventi cioè un “quid pluris” che le rende perseguibili penalmente in quanto caratterizzate da dolo ovvero da colpa”.

Peraltro, gli Ermellini pongono l’attenzione anche al principio dell’affidamento, secondo cui gli atleti confidano nel comportamento corretto (da un punto di vista sportivo) degli altri partecipanti.

Orbene, da tutte queste premesse, la conclusione a cui perviene la giurisprudenza di legittimità è quella per cui il comportamento dell’atleta, quando non è doloso, è da considerarsi colposo quando esorbita e viola la preesistente regola cautelare, da adagiarsi al contesto concreto (attività agonistica o amatoriale).

La sentenza della Corte d’Appello di Venezia è stata perciò cassata.