Convivenza, coabitazione o ospitalità. Il discrimine tra il reato di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori.

Spesso accade che nelle relazioni affettive, anche se “pre” o fuori dal vincolo coniugale, si instauri una relazione di coabitazione o di ospitalità.

Classico esempio sono i fidanzati che iniziano a frequentarsi, e saltuariamente l’uno o l’altra – o entrambi – si fermano a dormire a casa del partner, inizialmente sporadicamente poi con maggior frequenza, o anche  alternando periodi di unione sentimentale ad altri di significativo distacco affettivo.

La corretta qualificazione giuridica di tale condivisione abitativa rileva, eccome, dal punto di vista penale, nel caso in cui l’uno (o l’altra) pongano in essere atti vessatori nei confronti dell’altro (o dell’altra), come aggressioni fisiche o anche solo verbali, minacce, reiterate offese, molestie, etc.

Perché in tali casi, astrattamente, potrebbero qualificarsi sia il delitto di maltrattamenti in famiglia che quello di atti persecutori, con conseguenze rilevanti.

Il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’ art.572 del codice penale, è infatti punito maggiormente, con pena della reclusione da 3 a 7 anni, rispetto al delitto c.d. di stalking ex art 612 bis c.p., che è infatti punito con la reclusione da uno a sei anni (al netto, entrambi, di eventuali aggravanti).

In caso di matrimonio, non vi sono dubbi, a prescindere dalla convivenza; in caso di vessazioni reiterate in danno di uno dei coniugi, si applica sempre il delitto di maltrattamenti in famiglia.

Ma nel caso in cui le vessazioni si palesino all’interno di una relazione di fatto, si pensi al semplice fidanzamento o anche alla sporadica frequentazione tra due persone, vi è da prestare estrema attenzione.

Infatti, la delicata questione è indotta da un altro ed alternativo presupposto applicativo del delitto di maltrattamenti in famiglia; che si applica infatti anche fuori dai casi di matrimonio o parentela se la persona maltrattata convivesse  all’epoca  delle vessazione con il “maltrattatore”.

E quindi, se il Pubblico Ministero prima e il Giudice poi valutasse la frequentazione tra chi agisce e chi subisce la violenza caratterizzata dalla “convivenza”, si instaurerebbe un processo penale per il delitto di maltrattamenti in famiglia e l’autore delle condotte vessatorie si vedrebbe esposto, quindi, ad una pena detentiva significativamente maggiore rispetto al caso in cui la convivenza venisse esclusa, e quindi fosse contestato dai Magistrati il delitto di atti persecutori.

In tali casi, quindi, l’indagine penale deve prima chiarire il tipo di frequentazione che legava, all’epoca, chi agiva e chi subiva il maltrattamento, avuto riguardo al bene giuridico tutelato dal delitto di maltrattamenti in famiglia; che è pur sempre la famiglia, appunto, sia essa di diritto che di fatto.

Per giungere ad una non sempre facile qualificazione dei rapporti interpersonali, è necessario, per comparazione, specificare la differenza semantica ed anche sostanziale tra i concetti di relazione affettiva, convivenza, coabitazione o ospitalità, spesso impropriamente utilizzati come sinonimi o “similari”.

Coabitare è dividere le spese dello stesso appartamento di cui si detiene la libera disponibilità; ovvero ciascuno dei coabitanti può entrare nell’appartamento quando e come vuole, al di fuori di qualsiasi rapporto di affetto di tipo “famigliare”. Si pensi ai semplici coinquilini.

Convivere è coabitare, in una prospettiva di vita affettiva in comune; in quell’appartamento vi sono tutti i beni necessari alla vita personale e di coppia di ciascuno dei conviventi, perché di quella casa entrambi vogliono stabilire il luogo ove sviluppare la propria vita affettiva in comune caratterizzata da una progettualità di vita insieme.

Ospitare, infine, è acconsentire a chiunque, come anche al fidanzato, di trascorrere il giorno o la notte presso la propria abitazione; le chiavi sono tuttavia detenute da chi acconsente all’ospite di entrare, il quale, appunto, “se ne deve andare” se l’ospitante lo richiede, perché quella non è casa sua.

Precisazione che rende più chiara anche la comprensione della norma, in ossequio al principio di legalità.

Nelle aule di Giustizia, e se ne parla per esperienza professionale diretta, spesso si vede riconosciuta la convivenza anche in situazione di mera ospitalità, nel caso in cui tale ospitalità “si reiteri” con rilevante frequenza.

Tipico caso è quello del fidanzato/a che è spesso ospitato a casa del partner, come tutti i fine settimana, durante le festività, etc.

Ma considerare la maggior frequenza di una mera ospitalità come espressione di convivenza, nell’accezione penalmente rilevante, è errore interpretativo della legge penale, come specificano le ultime pronunce giurisprudenziali.

Infatti, se fosse una questione di frequenza, non si arriverebbe mai a comprendere effettivamente dopo quanto si possa parlare di convivenza, concetto che si relega invece all’effettiva instaurazione del nucleo famigliare in quella casa, ove appunto i conviventi, la coppia di fatto, attuano il progetto di vita insieme.

Perché, come detto, trattasi di un reato quello di maltrattamenti in famiglia che tutela la famiglia, ovvero la relazione “devota” a un progetto di vita insieme.

Fino ad allora, il frequentare la casa del fidanzato o della fidanzata, è, al più, sintomo di una famiglia di fatto “in potenza” che lo diventerà poi con la convivenza sopra descritta.

Infatti, la norma incriminatrice è inserita all’interno dei delitti contro la famiglia e, quindi, una lettura i costituzionalmente orientata, accolto il concetto di famiglia di fatto, ha indotto la Giurisprudenza a definitivamente precisare cosa si debba intendere per convivenza ai fini della contestazione del delitto di maltrattamenti.

:“….In conclusione, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25 Cost.), nonché la presenza di un apparato normativo che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell’àmbito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell’applicazione dell’art. 572 c.p., di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” nell’accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d’affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, lungi dall’essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita..”.

Ed ancora.

Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, il concetto di “convivenza”, in ossequio al divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici, va inteso nell’accezione più ristretta, presupponente una radicata e stabile relazione affettiva caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo. (Cassazione penale sez. VI, 28/09/2022, n.38336.)

Si può quindi qualificare, per quello che ad oggi è l’interpretazione dominante data dalla giurisprudenza, la convivenza quale comunione constante e materiale degli spazi all’ interno di un progetto di vita insieme.

Detto semplificando, i conviventi hanno entrambi le chiavi di casa, decidono di “andare a convivere”, si rapportano verso l’abitazione dove convivono ciascuno come se ne fosse il proprietario, perché quello è il luogo ove decidono di stabile insieme il domicilio della propria famiglia di fatto, in una, già dall’ inizio, previsione di vita insieme.

Di contro, quindi, in caso di mera e sporadica ospitalità, scevra da una reale progettualità di relazione, si configurerà, se presenti abituali episodi vessatori, il reato di atti persecutori, “meno grave” dal punto di vista punitivo.