Un padre è stato condannato per avere, nel contesto di una conversazione con diverse persone, indicato un ragazzino come colpevole di un’azione vandalica.
Nello specifico l’uomo era stato tratto a giudizio per aver diffamato un ragazzino “indicandolo, nell’ambito di una conversazione intrattenuta con più persone, come l’autore del danneggiamento di alcuni stipetti collocati presso una piscina”.
Per i giudici di merito la colpevolezza dell’imputato, condannato sia in primo che in secondo grado, per il reato di diffamazione, era evidente.
Tuttavia, ricorreva in Cassazione il difensore dello stesso che provava a fornire una chiave di lettura diversa, idonea, almeno in parte, a giustificare la condotta tenuta dal suo cliente.
Nello specifico, egli denunciava la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 599 c.p. che esclude la punibilità di “chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’art. 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.
Dalla lettura della norma si evince che l’esimente può essere applicata solo in presenza di due presupposti fondamentali: il fatto ingiusto altrui e lo stato d’ira conseguente.
Il fatto ingiusto altrui che provoca lo stato d’ira può consistere in qualsiasi comportamento contrario a norme giuridiche, civili, morali o di costume, e deve essere idoneo a determinare lo stato d’ira dell’autore, quindi deve valere come provocazione in senso stretto.
Lo stato d’ira conseguente al fatto ingiusto consiste in una alterazione psichica cui consegue la perdita del controllo di sé stessi per l’indebolimento o la mancata attivazione dei freni inibitori.
È necessario, ad ogni modo, che tale stato sia diretta ed immediata conseguenza del fatto ingiusto altrui, laddove la norma specifica che la condotta conseguente debba avvenire ‘subito dopo di esso’.
Nel caso di specie il difensore riteneva applicabile l’art. 599 c.p. poichè la condotta diffamatoria dell’imputato era stata provocata dal comportamento “ingiusto” del ragazzino, il quale, tuffandosi in mare senza assicurarsi che lo specchio d’acqua sottostante fosse libero da bagnanti, cagionava al figlio dell’imputato la rottura di un dente incisivo; circostanza che provocava, a suo avviso, lo stato d’ira dell’imputato.
Tuttavia la Suprema Corte di Legittimità rigettava il ricorso non condividendo le motivazioni addotte dal difensore dell’imputato.
Invero, secondo i Giudici della Cassazione, l’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 599, comma 2, c.p. è spiegata, nel caso di specie, dal fatto che non vi fossero elementi oggettivi atti a comprovare che lo scontro tra il figlio dell’imputato e l’altro minore fosse riconducibile ad una condotta colposa di quest’ultimo; quanto piuttosto, secondo la Suprema Corte, pare più verosimile pensare che l’occorso fosse imputabile soltanto all’esuberanza che accompagna le attività ludiche normalmente praticate dai bambini in uno stabilimento balneare (Cass. Pen. Sez. V, 11 gennaio 2022, n. 8212).
In estrema sintesi, l’ingiustizia del fatto compiuto dal minore costituirebbe solo un’opinione soggettiva dell’imputato e come tale inibisce l’applicazione dell’istituto esimente invocato, in quanto rientrante nella normale esuberanza propria dell’età infantile.
Impossibile, quindi, ricostruire il comportamento del ragazzino in termini di “mancato rispetto delle normali regole di civile convivenza»” e perciò illogico ipotizzare che le espressioni diffamatorie pronunciate dall’imputato siano state frutto di uno mero stato di ira, così non potendosi invocare la causa esimente di cui all’art. 599, comma 2, c.p.