La Suprema Corte di Cassazione si è più volte occupata di tracciare il discrimen tra il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e quello di atti persecutori (art. 612-bis c.p ) nel caso specifico in cui, cessata la convivenza, il soggetto agente perseguiti la persona offesa mediante condotte moleste e vessatorie.
La Giurisprudenza di Legittimità, con una recente sentenza (n. 30129/2021), ha nuovamente affrontato il problema di stabilire l’esatto confine tra le due fattispecie, ovvero stabile quando, in forza della clausola di sussidiarietà prevista dall’articolo 612 bis, comma 1 c.p., debba essere riconosciuto il reato di maltrattamenti e quando, invece, la condotta debba essere sussunta sotto l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori ex art. 612 bis comma 2 c.p.
La fattispecie esaminata dalla Suprema Corte muove da un ricorso proposto avverso la sentenza di appello con la quale, a conferma della decisione di primo grado, il ricorrente era stato condannato per il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p., in danno dell’ex convivente, costituitasi parte civile.
In particolare, i giudici di merito avevano ravvisato la sussistenza del delitto di cui all’art. 572 c.p., dal 1991 al 2015, sebbene la convivenza more uxorio fra l’imputato e la persona offesa fosse cessata nel 2008.
Alla luce di tale ultima circostanza il ricorrente contestava che, a partire dal 2008, non potesse ravvisarsi il delitto di maltrattamenti, ma quello di atti persecutori, essendo cessata la convivenza e mancando con la persona offesa quella “progettualità comune di vita” che connota la comunità familiare.
Ciò premesso, la Corte ha stabilito che il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere ravvisato in tutti i casi in cui, nonostante l’interruzione della relazione di convivenza, eventualmente anche attestata da un provvedimento formale di separazione legale o di divorzio, residuino comunque dei rapporti di stabile frequentazione determinati dalla pregressa esistenza del rapporto familiare, soprattutto allorchè dovuti alle comuni esigenze di accudimento e di educazione dei figli, atteso che in tale caso può ancora parlarsi di fatti commessi nel contesto di una “relazione familiare”.
Di qui il principio di diritto secondo il quale “le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorchè si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorchè i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza”.
Se ne deduce, quindi, che sia ravvisabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte illecite poste in essere da parte di uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell’altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento, poiché in tal caso non si può parlare di “famiglia”.
Sulla base di tali argomentazioni la Corte ha rigettato il ricorso ritenendo che i giudici avessero fatto nel caso in esame ineccepibile applicazione del suddetto principio, dando altresì conto del fatto che il ricorrente avesse posto in essere le condotte aggressive e violente in danno della ex convivente more uxorio, in una situazione nella quale il vincolo familiare ed affettivo con la persona non era cessato, persistendo anzi un’intensa relazione conseguente agli obblighi derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale verso le loro figlie, attestata, anche, dalla circostanza che l’imputato e la vittima continuassero ad avere rapporti sessuali.